Ha ragione Marco Vallora, recensendo la mostra di Joaquin Sorolla (1863-1923) al Palazzo dei Diamanti di Ferrara -la prima in Italia- nel sostenere che, se " uno citasse oggi, in un articolo, il suo pur rilevante nome, quale riferimento imprescindibile di quel passaggio storico tra la Belle Epoque e la Modernità (accanto ai più persistenti Boldini, Tissot, Whistler, Zorn e Sargent) rischia di passare per snob, alla ricerca di nomi preziosi, ormai muti ai più. Mentre al tempo, invece, a Biennali e Quadriennali, era popolarissimo ed influente. Ma lo era per una pittura fluida, rutilante, mondaneggiante e mediterranea, di cui qui non c’è quasi più traccia" (leggi l'articolo). Sorolla era certamente un artista di successo, alieno da radicalismi e sperimentalismi che pure sembrerebbero stuzzicarlo; ma questa mostra, dedicata alla produzione tarda (in buona parte contemporanea a cubismo e futurismo) e più intima, incentrata su quei "Giardini di luce" evocati dal titolo (quelli dell'Andalusia e poi quello della casa di Madrid) è un'autentica festa per gli occhi, godibilissima e peraltro assai più vicina alla nostra sensibilità delle opere che ne decretarono il successo. La pennellata, fluida e mobilissima, si concede in queste tele una straordinaria libertà, ma soprattutto colpisce ed affascina la luminosità palpitante che sembra irradiare dal supporto; ed è proprio questo debordare della luce il fulcro di tanta della migliore pittura del novecento...
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